In questi giorni lo slancio e la partecipazione della comunità foggiana atto a dimostrare la compattezza del fronte “anti-mafia” sul Gargano ha (ri)portato al centro dell’agenda politica e del dibattito regionale la questione legata alla penetrazione mafiosa in Puglia. Gli ultimi attentati ai manager di una conosciuta azienda sanitaria, uniti al ritrovamento di un cadavere carbonizzato di un uomo scomparso, hanno alzato il livello di guardia, imponendo una riflessione seria sulla violenza e sulla forza delle organizzazioni criminali che tengono in ostaggio i nostri territori. Se i media da anni parlano ormai della capacità imprenditoriale e finanziaria delle realtà criminali, diventate vere e proprie multinazionali capaci di diversificare i propri investimenti; è anche vero che indagini partite dalla Puglia hanno palesato situazioni inedite che vedevano i clan pugliesi egemoni in alcuni settori, come quello delle scommesse online e delle slot machine.
Ma la Mafia Spa non tralascia nulla e così non poteva (e non può) accorgersi del settore primario per l’economia regionale: l’agricoltura e l’agroalimentare. Il valore della produzione agricola pugliese nel 2018, secondo l’Istat, sfiora i 5 miliardi di euro.
La Puglia – per l’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare – è una regione a forte rischio ed al terzo posto nazionale, con un livello di infiltrazione criminale pari all’1,31%, preceduti solo da Calabria (2,55%) e Sicilia (2,08%). ll fenomeno è cresciuto di intensità negli ultimi cinque anni a Bari 1,39%; Taranto: 1,30%; Barletta-Andria- Trani: 1,27%.
La palma nera – secondo la Coldiretti – spetterebbe alla provincia di Bari, nella graduatoria che fotografa l’intensità del fenomeno nelle province italiane. Si piazza al decimo posto, seguita a ruota da Taranto al 15°, la provincia di Barletta-Andria-Trani al 18° posto, Lecce al 28°, Brindisi e Foggia rispettivamente al 46° e 47° posto. I ruoli si invertono se si esamina l’indice di permeabilità delle agromafie che raggiunge 100 a Foggia, 66,80 a Brindisi, 44,75 nella Bat, 34,56 a Taranto, 30,75 a Bari e, infine, 25,94 a Lecce
La Mafia è capace di agire in maniera diretta ed in maniera indiretta, lavorando “dietro le quinte”, affiancando ad azioni di forza la propria capacità di investimento e di corruzione per aggredire finanziamenti (sulla carta) dedicati allo sviluppo agricolo, agroalimentare e rurale. In questo pentolone ribollente c’è di tutto: furti, racket, usura, lavoro nero, contraffazioni, sofisticazioni, estorsioni, abigeato, frodi alimentari, truffe comunitarie. Un magma in movimento (la torta a livello nazionale è quantificata dall’Eurispes in 25 miliardi di euro con un aumento del 12,4 per cento rispetto all’ultimo anno) con gli inevitabili rischi per la salute, se si pensa ai danni ambientali, alle discariche abusive, alla gestione dei rifiuti, alla terra dei fuochi.
Dapprima, infatti, ci sono i furti. Ladrocini che seguono la stagionalità delle produzioni, allorquando squadre ben organizzate tagliano i ceppi dell’uva da vino da marzo ad aprile, rubano l’uva da tavola da agosto ad ottobre, le mandorle da agosto a settembre, le ciliegie a maggio, rubano le olive da ottobre a dicembre, gli ortaggi tutto l’anno. E secondo la territorialità rubano carciofi brindisini ed asparagi foggiani o ulivi monumentali, “a seconda di richieste ben specifiche” come affermavano pochi mesi le organizzazioni datoriali. Un’altra pratica che rientra appieno nelle logiche mafiose prevede richieste estorsive e sabotaggi. Secondo un report sui reati in agricoltura la top ten delle azioni mafiose prevede, soprattutto, reati contro il patrimonio come furto di mezzi agricoli (15%), furto di bestiame (11%), furto di prodotti agricoli (13%), racket (9%), usura, danneggiamento, pascolo abusivo ed estorsione. E man mano che il tempo passa le azioni diventano sempre più violente ed eclatanti. A fine dicembre ha fatto scalpore l’assalto armato ad un tir carico di mandorle che percorreva la Cerignola-S.Ferdinando, accadimento che seguiva di pochi giorni un tentato furto di un camion carico di olive da trasformare avvenuto ad Andria. A San Severo una delle più importanti cooperative vitivinicole della zona è stata danneggiata attraverso un sabotaggio che ha portato allo sversamento del vino stoccato nei sylos che ha letteralmente invaso le strade viciniori.
Oltre a queste azioni “dirette”, la Mafia Spa agisce dietro le quinte, affamata di fondi comunitari in collusione con professionisti del malaffare. Le cronache da decenni, ormai, riportano a galla, grazie al sempre più pressante controllo delle forze dell’ordine, truffe milionarie sui regimi di qualità (bio in primis), sugli aiuti a sostegno del reddito agricolo, sugli investimenti infrastrutturali e persino sullo sfruttamento degli aiuti previsti per i pascoli della transumanza. Una indagine partita dalla Sicilia ha coinvolto diverse regioni italiane: la maxinchiesta della procura di Messina i primi di gennaio ha portato all’emissione di 114 richieste di misure cautelari, con 94 arresti eseguiti, 194 indagati e 151 aziende sequestrate. Un fascicolo portentoso di circa 30mila pagine, con la sola ordinanza di custodia cautelare che conta 2.617 pagine e 490 capi di imputazione. La Mafia della transumanza, come è stata ribattezzata, parla di aziende e affaristi del nord e del sud, che affittano o si intestano terreni a pascolo al fine di ottenere ingenti contributi comunitari e che “buttano” (letteralmente parlando) animali da pascolo in quelle zone lasciandoli morire: «Non agricoltura e pastorizia e qualche leggero aiuto per avere finanziamenti – scrive il Gip di Messina, Salvatore Mastroeni -, ma semplice criminalità che non costituisce ricchezza per il territorio, non sviluppa agricoltura e pastorizia, ma fa ditte di carta, ingurgita profitti milionari, che come tutti i profitti di mafia spariscono e niente lasciano alla gente, al territorio, alla vera agricoltura e pastorizia».
Questa è la Mafia che non ha numeri con cui etichettarla: nel momento in cui la si chiama Mafia 3.0 è già passata all’upgrade, diventando 4.0. Sempre aggiornata. Sempre sul pezzo. Sempre pronta ad unire forza e ragionamento. Violenza e corruzione. Istinto e pazienza. E’ il suo modus operandi, ma è anche la sua essenza. Molti, a ragion venduta, parlano della sua capacità di essere “liquida”, onde enfatizzare la sua capacità di cangiar forma, rimanendo la stessa nella sua sostanza.
Se da sempre la Mafia “fa impresa”, oggi vuole “essere” impresa. ll comparto agroalimentare si presta ai condizionamenti e alle penetrazioni: poter esercitare il controllo di uno o più grandi buyer significa poter condizionare la stessa produzione e di conseguenza il prezzo di raccolta, così come avere in proprietà catene di esercizi commerciali o di supermercati consente di determinare il successo di un prodotto rispetto ad altri. La Mafia che entra nel mercato, ma non cambia la sua avversione a rispettare le regole, sfruttando a pieno il fenomeno del caporalato. Le agromafie di casa nostra diversificano i servizi e seguono le richieste del mercato con attenzione: l’Ispettorato del lavoro certifica come il 50 per cento delle aziende agricole pugliesi risulti in una condizione di irregolarità, il 64 per cento dei lavoratori sia in nero e il 75 per cento è rappresentato da lavoratori assunti in agricoltura in condizioni di clandestinità. Non a caso si trova in Puglia l’azienda agricola che ha reclutato 2mila operai facendoli lavorare fino a 15 ore al giorno con una retribuzione oraria di 2 euro e 50 centesimi.
In questo iniziano anno, però, due notizie sono apparse confortanti: l’attenzione di gruppi i distribuzione locali verso i prodotti di aziende che rispettano il lavoro e l’annuncio dell’Associazione distribuzione moderna sulla scelta della Grande Distribuzione Organizzata di richiedere, dal prossimo anno, alle imprese agricole fornitrici l’iscrizione alla Rete del lavoro agricolo di qualità, una decisione che testimonia la presa di coscienza e la sensibilità sul tema della lotta al caporalato e sull’esigenza di creare una filiera agroalimentare responsabile e socialmente sostenibile.
Tanto c’è, quindi, ancora da fare, sia sul fronte della tutela sul mercato delle aziende sane sia sul fronte del rispetto dei diritti dei lavoratori, sia sull’educazione del consumatore verso i prodotti che si fregiano di marchi “etici”. Tanto c’è ancora da fare in materia di lotta alle cooperative senza terra, una realtà che interessa più di 2.000 aziende fittizie in Italia.
La strada è ancora lunga, ma già la presa di coscienza della gravità del fenomeno è un primo passo verso l’azione.