Il food traina il Made in Italy più delle case di moda o del settore automotive. E’ una tendenza costante degli ultimi anni. Ma in questo momento sta emergendo una urgenza “intra-sistemica” che non deriva dal mercato né tanto meno da dinamiche di tipo macro-economico: come dare valore al lavoro di chi la tanto sbandierata qualità la realizza? Accanto alla qualità dei prodotti si sta iniziando a parlare di qualità del lavoro. Anche le stesse imprese agricole, ormai, chiedono un riconoscimento a chi presta particolare attenzione alla qualità. La qualità è un concetto di filiera. E’ condivisione: di dati, informazioni, metodi. La qualità è partecipazione. Fare qualità è un atto democratico votato al bene di tutti: dei consumatori e dei produttori. La ratio delle politiche di filiera è orientata ormai al riconoscimento della qualità che determina un plus di prezzo: i cosiddetti accordi di fliera nascono sia per mettere al riparo i produttori dagli stress del mercato sia per valorizzare una produzione top di gamma realizzata con tecnologie all’avanguardia e un approccio green ed eco-sostenibile.
Questa stessa logica dovrebbe, per contro, tenere conto anche del lavoro. Del lavoro di chi “praticamente” questa qualità la realizza. Il cibo e le eccellenze agroalimentari ed enogastronomiche rappresentano il collegamento con la cultura e con i valori dei luoghi e delle sue radici e costituiscono un’opportunità da cogliere per rilanciare il territorio e la sua economia. Dunque, che valore diamo al lavoro agricolo ed agroalimentare? Questo è il punto di partenza per discutere il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale del settore Alimentare, in corso tra le organizzazioni sindacali e le parti datoriali. Come si può distribuire la ricchezza in modo più equo all’interno della filiera agrialimentare? Ragioniamoci, perché il lavoro dà valore! Non è un anagramma (anche se poco ci manca), ma una domanda seria, punto nevralgico di un confronto fertile per l’intero comparto, per le aziende e per i lavoratori.